mercoledì 19 gennaio 2011

Sotto il sole giaguaro

Ciao a tutti!
Oggi non vi proporrò uno dei miei pasticci culinari, bensì dedicherò questo spazio a un maestro della nostra letteratura, uno dei miei scrittori preferiti che non mi stanco mai di leggere e rileggere: Italo Calvino (e scusate se mi ripeto, ma mi trovo in un periodo calviniano).
Il racconto "Sotto il sole giaguaro" che dà il nome all'omonima raccolta (dedicata ai cinque sensi, rimasta purtroppo incompita, ma in cui compaiono un racconto sull'olfatto, uno sul gusto e uno sull'udito), pubblicata postuma nel 1986, inscena il viaggio di una coppia in crisi che attraversa il Messico tra le sue bellezze artistiche e le prelibatezze culinarie, nel tentativo di ritrovare la propria armonia e complicità.
Qui di seguito vi riporto alcuni passaggi, naturalmente omettendo il finale, per non guastare la sorpresa a quanti di voi non l'avessero ancora letto (e vi consiglio caldamente di farlo!)

Gustare, in genere, esercitare il senso del gusto,
riceverne l'impressione, anco senza deliberato volere o
senza riflessione poi. L'assaggio si fa più determinante
a fin di gustare e di sapere quel che si gusta; o almeno denota
che dell'impressione provata abbiamo un sentimento riflesso,
un'idea, un principio di esperienza. Quindi è che sapio, ai Latini,
valeva in traslato sentir rettamente; e quindi il senso dell'italiano
sapere, che da sé vale dottrina retta, e il prevalere della sapienza
sopra la scienza.

Niccolò Tommaseo
Dizionario dei sinonimi

 [...] Il nostro viaggio attraverso il Messico durava già da più di una settimana. Pochi giorni prima, a Tepotzotlán, in un ristorante che allineava i suoi tavoli tra gli alberi d'arancio d'un altro chiostro  di convento, avevamo gustato vivande preparate (così almeno ci era stato detto) seguendo le antiche ricette delle monache. Avevamo mangiato un tamál de elote, cioè una sottile semola di mais dolce con carne di maiale tritata e piccantissimo peperoncino, il tutto cotto a vapore con una foglia anch'essa di mais; poi chiles en nogada, che erano peperonicini rossobruni, un po' rugosi, nuotanti in una salsa di noci la cui asprezza pungente e il fondo amaro si perdevano in un'arrendevolezza cremosa e dolcigna.
Da quel momento l'idea delle monache evocava in noi i sapori di una cucina elaborata e audace, come tesa a far vibrare le note estreme dei sapori e accostarle in modulazioni, accordi e soprattutto dissonanze che s'imponessero come un'esperienza senza confronti, un punto di non ritorno, una possessione assoluta esercitata sulla ricettività di tutti i sensi.
[...] Le labbra d'Olivia nel bel mezzo della masticazione indugiavano fin quasi a fermarsi, ma senza interrompere del tutto la continuità del movimento, che rallentava come non volendo lasciar allontanare un'eco interiore, mentre il suo sguardo si fissava in un'attenzione senza oggetto apparente, quasi come in allarme. Era una speciale concentrazione del viso che avevo osservato in lei durante i pasti, da quando avevamo cominciato il nostro viaggio in Messico: una tensione che seguivo nel suo propagarsi dalle labbra alle narici, ora dilatate ora contratte. (Il naso ha una plasticità molto ridotta - soprattutto un naso armonioso e gentile come quello d'Olivia - e ogni impercettibile movimento inteso a espandere la capienza delle narici nel senso  longitudinale le rende in effetti più sottili, mentre il corrispettivo movimento riflesso che ne accentua l'ampiezza risulta poi invece come un ritrarsi  di tutto il naso verso la superficie del viso).
Da quanto ho detto si potrebbe credere che Olivia mangiando si chiudesse in se stessa immedesimandosi  nel percorso interiore delle sue sensazioni; in realtà invece il desiderio che tutta la sua persona esprimeva era quello di comunicarmi ciò che sentiva: di comunicare con me attraverso i sapori, o di comunicare coi sapori attraverso un doppio corredo di papille, il suo e il mio.

Non è meraviglioso il modo in cui Calvino descrive i cibi e il piacere che ci possono dare nel gustarli?

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